Scrivere è come respirare. Per me è così. Scrivo e non mi basta mai. Ho una curiosa patologia che definirei, non senza malizia, un ‘priapismo della tastiera’. Lo faccio da quando avevo otto anni e la maestra impicciona ficcanasava nelle nostre vite familiari con la scusa del ‘diarietto’. Eravamo ingenue e non scafate e, dunque, spiattellavamo tutto quello che avveniva in casa, senza schermi. O, almeno, quello che riuscivamo a cogliere e a intercettare, perché erano i tempi in cui, di molti argomenti, davanti ai bambini si parlava per sottintesi oppure si aspettava che fossero a distanza di sicurezza; o ancora, si usavano parole a chiave, come per i servizi segreti.
Fu così che seppi – ma me ne sono accorta decenni dopo, giusto perché il dialogo fra mia madre e mia zia mi era rimasto impresso – che una vivace signorina di Nocera Inferiore era stata beccata in un albergo della Costiera Amalfitana con un maschietto, attirandosi il vituperio generale. Non erano neanche i tempi del diarietto, perché la figlia della signorina ha quattro anni meno di me. Insomma, dovevo avere due anni o poco più. Mio marito, per gioco, dice sempre che io ho una memoria fetale, nel senso che ricordo anche cose avvenute quando sguazzavo nell’utero materno.
Mi sono allontanata retroattivamente dall’epoca dei diarietti impostici da quella erinni della nostra maestra, una donna piuttosto bruttina e amareggiata dall’aver fatto da pigmalione ad un intraprendente e avvenente pastorello, conosciuto quando lei era insegnante delle scuole serali, poi sostenuto fino ad un diploma magistrale e, peraltro, sposato. Appena acquistata autonomia – o pure prima, forse? – il pastorello redento, con gli anni diventato direttore didattico, si era emancipato e aveva cercato varie distrazioni. La moglie sfogava le sue frustrazioni coniugali a scuola e ricordo le sue sberle, i suoi castighi contro le malcapitate, relegate dietro la lavagna, e quella volta che alla mia compagna di banco – ormai scomparsa, purtroppo, per un brutto cancro -, piuttosto impermeabile alla matematica, capitò di avere la testa sbattuta contro la fatidica lavagna. La maestra odiava la mia esuberanza, la mia fame di sapere: non mi bastava quello che ci spiegava, volevo approfondire ed ero un elemento destabilizzante rispetto al suo ordine didattico. I miei diarietti, però, essendo dei veri e propri resoconti ‘giornalistici’, le consentivano di penetrare nei fatti di casa mia e di divulgarli nel circolo Pickwick delle maestre. Ero, come oggi, incontenibile, malgrado madre e zia cercassero d’inculcarmi il principio che bisognava mantenere una certa ritrosia nel raccontare i fatti propri. Purtroppo per loro, però, i diarietti si scrivevano in classe ed io avevo sfrenatamente le mani libere nel resoconto puntuale di ciò che avveniva fra le mura domestiche e anche fuori, ovunque mi trovassi nel ruolo di testimone oculare.
Fu così che, involontariamente, diedi fuoco alle polveri di un vero e proprio scandalo – in senso bonario, intendo – riportando una salace leggenda raccontatami da mio zio materno – lui, sì, il mio Pigmalione: sapevo appena leggere allorché, per la Befana, non mi regalò una bambola (tanto, quelle, la mia sanguinaria sorella minore, precursora dei tagliagole dell’ISIS, avrebbe provveduto sistematicamente a decapitarmele), bensì l’Enciclopedia per Ragazzi Mondadori, in 16 volumetti, che provvedetti coscienziosamente a leggere da cima a fondo – dicevo la leggenda, riguardante l’assalto al Castello di Cava dei Tirreni.
Dovete sapere che Nocera Inferiore e Cava dei Tirreni, col cuscinetto di Nocera Superiore, che, però, è un Comune creato artificialmente nel XIX secolo, hanno sempre avuto un certo attrito fra loro. Una concorrenza che, obiettivamente, non sta ne’ in cielo ne’ in terra – o, almeno, era così ai tempi in cui scrivevo il diarietto – perché Cava, sotto il profilo economico e sociale era una specie di ‘piccola Svizzera’ (e così era soprannominata), molto più raffinata della rozza e rurale Nocera. Divertente poi pensare quante ‘pennellate cavesi’ ci siano state nella mia vita, a cominciare dalle origini della famiglia paterna del mio primo marito e dalla nascita nell’Ospedale cittadino del mio unico figliolo (due esperienze infelici: cattive scelte entrambe, visto che il marito è diventato un ex ed il figlio corse il rischio di morire neonato per vari errori medici). All’epoca della mia seconda elementare non avevo precognizione di tutto ciò e mi limitai a riportare il racconto fattomi da mio zio su quell’assalto al Castello. Direte voi: ma cosa c’era di così scandaloso in quei fatti lontani nel tempo, risalenti all’epoca in cui i Saraceni s’impadronirono del presidio?
Oggi che siamo sotto la pressione del terrorismo… saraceno e predatorio, il tempo pare aver assorbito una spirale all’incontrario. E la mente mi è tornata a quella leggenda, messa in giro dai detrattori appartenenti al partito anti-cavese. Secondo un copione che oggi vediamo ricalcato dall’ISIS, i Saraceni, nell’asserragliarsi nel Castello, rapirono le donne locali. Nel racconto di mio zio, non si trattava delle ‘signore’, protette nei loro palazzi o rifugiatesi chissà dove, bensì delle contadine dei dintorni, abituate ad una vita durissima, accanto a mariti e compagni che, per comportamento, erano giusto un gradino al di sopra dei pitecantropi. Di colpo, queste povere donne, pur abusate sessualmente (ma, all’epoca, si percepiva la differenza fra matrimonio e abuso?), si trovarono ad avere pasti caldi, vesti decenti, compagni di letto pirati sì, ma magari anche più attraenti dei loro abbrutenti mariti. Fu così che… si affezionarono al loro nuovo status e, quando i villici intorno, per riconquistare il Castello e recuperare le mogli, lo strinsero d’assedio, piuttosto che fare il tifo per gli assedianti, diedero man forte agli assediati, scaraventando sul cranio degli ‘aggressori’ paioli di olio bollente. Questo narra una novella che ha un che di boccaccesco e che mio zio, convinto che non capissi le implicazioni, mi narrò, mentre, dal balcone di casa, osservavamo i fuochi d’artificio in lontananza dell’assalto al Castello. Le basse insinuazioni contenute in questo racconto, che riportai con fedeltà nel diarietto, si diffusero come fuoco greco per tutta la scuola elementare Ugo Foscolo di Nocera Inferiore, all’epoca ubicata presso i locali della sede municipale, riportate a mezza bocca dalla mia maestra non solo alle colleghe ma anche alle madri che facevano parte di una sorta di delegazione di fedelissime supporter della maestra stessa. Ed io divenni una pietra dello scandalo. Fu una delle prime lezioni che ebbi dalla vita. Impavida, non ho ancora imparato e ingenuamente continuo, oltre 50 anni dopo, a dire tutto quello che mi passa per la mente. Frangar non flectar.
Naturalmente, questo blog non s’incentrerà sui miei ricordi d’infanzia. Era solo un modo ammortizzato di riprendere a scrivere, sostituendo gli AMBRacadabra che, in mille e più puntate, hanno costituito la spina dorsale della mia collaborazione su L’Indro, e che erano incentrati sulla satira di costume e politica. Come ho detto anche su FB, scrivere è fatica, sudore, riflessione, cesello, rifiuto della banalità. Costa moltissimo a chi lo fa, a chi lo sente non come un mestiere, ma come un parto continuo. A chi si aggiorna, legge, utilizza la propria testa per distillare fatti e opinioni. Allora, piuttosto che essere sfruttata per fare da traino gratuito per chi ha una testata, preferisco autoamministrarmi con un mio blog. Con la speranza che qualcuno apprezzi e dia valore a ciò che scrivo.